Fonte: www.eutekne.info
Autore: Maurizio Meoli
Mercoledi 5 marzo 2014
Per configurare la responsabilità dell’ente ex DLgs. 231/2001 è sufficiente che la condotta dell’autore del reato presupposto tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l’interesse di quest’ultimo (indipendentemente dal conseguimento di un vantaggio).
Il profitto confiscabile, ex art. 19 del DLgs. 231/2001, deve corrispondere ad un mutamento “materiale”, “attuale” e “di segno positivo” della situazione patrimoniale del suo beneficiario, determinato dal reato attraverso la creazione, la trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica.
Sono queste le principali precisazioni rese dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10265 di ieri.
… segue articolo …
http://www.eutekne.info/Sezioni/Art_452439_responsabilita_231_anche_senza_vantaggi.aspx
Ai sensi dell’art. 5 comma 1 del DLgs. 231/2001, l’ente è responsabile per i reati commessi “nel suo interesse o a suo vantaggio” da soggetti apicali o da persone sottoposte alla direzione ed alla vigilanza dei medesimi. Il secondo comma precisa che l’ente non risponde se le persone di cui sopra hanno agito “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”. La formula normativa, come precisato da Cass. 30 gennaio 2006 n. 3615, non contiene un’endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato “ex ante”. Tale alternatività, afferma ora la Suprema Corte, deve essere accolta ma precisata. Se è indubbio che l’accertamento di un esclusivo interesse dell’autore del reato o di terzi all’illecito impedisce il sorgere della responsabilità dell’ente, ciò non significa che il criterio del vantaggio perda automaticamente di significato.
È sufficiente, infatti, che venga provato che l’ente abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche quando non è stato possibile determinare l’effettivo interesse vantato “ex ante”, purché non sia contestualmente stato accertato che quest’ultimo sia stato commesso nell’esclusivo interesse del suo autore o di terzi. La nozione di interesse non presenta una dimensione “soggettiva”, foriera di derive psicologiche nell’accertamento della fattispecie, ma oggettiva. In altri termini, l’interesse dell’autore del reato può coincidere con quello dell’ente (ovvero la volontà dell’agente può essere quella di conseguire l’interesse dell’ente), ma la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato presupposto, perseguendo il proprio autonomo interesse, obiettivamente realizzi (ovvero la sua condotta illecita appaia “ex ante“ in grado di realizzare, rimanendo irrilevante che lo stesso sia effettivamente perseguito) anche quello dell’ente. È, quindi, sufficiente che la condotta dell’autore dell’illecito presupposto tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, “anche” l’interesse dell’ente. Ciò risulta confermato dagli artt. 12 comma 1 lett. a) e 13 comma 3 del DLgs. 231/2001, che prevedono, rispettivamente, la diminuzione delle sanzioni pecuniarie e l’inapplicabilità di quelle interdittive nell’ipotesi in cui il reato presupposto sia commesso nel “prevalente” interesse dell’autore o di terzi e l’ente non abbia tratto dallo stesso alcun vantaggio (o abbia tratto solo un vantaggio minimo). Tale ricostruzione vale anche con riguardo ai reati “presupposto” societari, nonostante l’art. 25-ter del DLgs. 231/2001, ad essi relativo, menzioni il solo “interesse” quale criterio ascrittivo dell’illecito all’ente. La norma, infatti, opera un allontanamento solo apparente dai criteri di imputazione generale, che, pertanto, nonostante la dubbia tecnica di redazione della legge, sono da confermare. Quanto all’individuazione del profitto assoggettabile alla confisca/sanzione, ex art. 19 del DLgs. 231/2001, poi, la Suprema Corte, dopo aver ripercorso le indicazioni fornite in materia dalle Sezioni Unite, osserva come esso debba essere individuato, in linea generale, nel vantaggio di natura economica che si risolva, per colui che ne beneficia, in un effettivo incremento patrimoniale che possa ritenersi di diretta ed immediata derivazione causale dal reato.
Peraltro, la scarsa capacità selettiva della formula “vantaggio economico” impone di ritenere la nozione di profitto inscindibilmente legata al ricordato vincolo di pertinenzialità. Ed allora, il profitto deve essere inteso come “evento” in senso tecnico (seppure esterno al tipo di illecito). Vale a dire che esso, per essere tipico, deve corrispondere ad un mutamento “materiale”, “attuale” e “di segno positivo” della situazione patrimoniale del suo beneficiario, determinato dal reato attraverso la creazione, la trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica. Rispetto a tale nozione non rileva la falsa rappresentazione in bilancio (sottostima) del rischio di credito connesso ad operazioni in derivati, con mancato accantonamento di quote di capitale proporzionate al rischio stesso per dare al patrimonio di vigilanza consistenza adeguata. L’aumento delle risorse rese così disponibili per altri utilizzi, infatti, non implica la creazione o acquisizione di nuova ricchezza, ma la mera destinazione di quella preesistente al reato – la cui lecita acquisizione non era, nel caso di specie, in discussione – al soddisfacimento di scopi diversi da quelli che avrebbero dovuto essere perseguiti.