Esclusa la discrezionalità della «confisca per equivalente»

 

FONTE: WWW.EUTEKNE.INFO

AUTORE: STEFANO COMELLINI

 

Stefano COMELLINI / Venerdì 03 maggio 2013

 

 

Più d’uno gli spunti di interesse che si ricavano dalla sentenza n. 19051, depositata ieri dalla Cassazione.
La decisione della Suprema Corte riguarda diversi aspetti di legittimità di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente, di beni mobili e immobili, riferibili a una società, poi dichiarata fallita, nell’ambito della cui attività e a vantaggio della quale erano stati realizzati fatti di corruzione e truffa aggravata.

Il presupposto del provvedimento ablatorio si ritrova nell’ambito del DLgs. 231/2001, che fissa la responsabilità degli enti da reato, e in particolare negli artt. 19 (“confisca”) e 53 (“sequestro preventivo”) il cui combinato disposto ne fissa la disciplina complessiva.
In particolare l’art. 19, comma 2, dispone che, “quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato”.

Si tratta della “confisca per equivalente” o “confisca di valore”, che si ritrova in vari ambiti del diritto penale, riferita al reato di usura (art. 644 c.p.), a determinati reati contro la Pubblica Amministrazione (artt. 322-ter e 335-bis c.p.), agli illeciti societari (art. 2641 c.c.) e penaltributari (L. 244/2007).

Si tratta, in sostanza, di un rimedio all’impossibilità di individuare, nella sfera giuridico- patrimoniale dell’autore dell’illecito, i beni, mobili o immobili, in cui consiste il profitto o il prezzo del reato per essere gli stessi stati ceduti a terzi, occultati, consumati.
L’applicazione concreta del sequestro preventivo dovrà conseguire, secondo quanto affermato dalla decisione in esame, a una valutazione del giudice che fissi con precisione l’equivalenza dei beni oggetto dell’ablazione con il profitto o prezzo del reato.

Il primo punto su cui si sofferma la Corte è la natura facoltativa – come sostenuto dal ricorrente per l’utilizzo testuale della forma verbale “può” – ovvero obbligatoria della particolare confisca prevista dal secondo comma del citato art. 19.
In realtà, confermando il suo consolidato orientamento, la Corte esclude la discrezionalità di detta confisca per equivalente, quale diretta conseguenza della sua natura di sanzione principale e autonoma, espressamente prevista come tale dall’art. 9 dello stesso Decreto 231 (SS.UU. n. 26654/2008), fondata sul vantaggio tratto dall’ente e a prescindere dalla pericolosità della res.

ll giudice è tenuto a verificare i requisiti di legge

Pertanto, l’uso da parte del legislatore della forma verbale “può”, lungi dall’intaccare l’obbligatorietà della “confisca-sanzione”, ha il solo significato di imporre al giudice la preventiva verifica dei requisiti di legge: l’impossibilità di procedere alla confisca diretta del prezzo o del profitto del reato, da un lato; l’equivalenza di valore tra i beni confiscati e il medesimo prezzo o profitto, dall’altro.

Non vi era quindi, nel caso di specie, la necessità di una preliminare e diversa valutazione circa il periculum e in ordine al bilanciamento tra gli interessi dei creditori fallimentari e la pretesa punitiva dell’ordinamento.
Anche sotto altro profilo, la Corte ha respinto il ricorso.

Nell’intento di preservare dal provvedimento ablativo beni della società fallita caduti nella massa fallimentare, il Curatore aveva ricondotto la procedura alla nozione di “terzo estraneo al reato”, come tale esentato dagli effetti della confisca (cfr. Cass. n. 47312/2011).
La Corte ha rilevato che la curatela fallimentare non può essere terzo estraneo al reato, perché tale è solo chi non abbia partecipato in alcun modo all’illecito o all’utilizzazione dei profitti ricavati (cfr. SS.UU. n. 29951/2004). Infatti, solo con la vendita fallimentare la società (fallita) perde, dopo la disponibilità – passata con la sentenza dichiarativa del fallimento, alla curatela – anche la titolarità dei beni.

In ogni caso, conclude sul punto la Corte, deve ritenersi prevalente sull’interesse della procedura fallimentare quello proprio dello Stato di incamerare l’equivalente del profitto derivante da reato.

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